PREMESSA
L’arte ha a che fare con l’enunciazione e non con l’enunciato. Ha a che fare con il come e non con il cosa. Su questa linea mi riferirò all’arte della clinica, all’arte della cura come una delle espressioni impossibili dell’azione umana come sosteneva Freud annoverandola tra le altre arti impossibili oltre a quella dell’educazione e della politica.
L’elemento di impossibile, implicito nell’educazione e nella politica, può essere evidente a tutti mentre sulla clinica, sulla cura, l’illusione di poter disporre di un soggetto che si supponga sapiente, tale cioè a cui si possa delegare la nostra salute è, nonostante la storia della medicina e, più in particolare, nonostante la storia della psichiatria, sempre e ancora molto forte.
Un’arte impossibile è tale proprio perché non esiste un sapere così potente, così assoluto, così esaustivo da avere a disposizione, nel proprio magazzino sapiente, una risposta a tutte le questioni che implicano il soggetto nella sua esistenza.
È a partire quindi da questo sapere impossibile e comunque inesistente, da questo sapere vuoto che cercherò di muovere qualche passo spostandomi a mò di spola tra la teoria e la pratica, tra l’esperienza e la possibilità di interrogarla, attraverso un’ipotesi teorica, tra il fare e il desiderio che il fare comporta, tra l’espressività e l’amore per un’espressività rinnovata e comunque singolare.
L’impossibile ha a che fare con l’impensabile. Da qui ci muoveremo. Il sapere ideale, quello universitario e burocratico non è mai veramente servito se non per classificare ed ordinare un sapere già compiuto, già avvenuto. Siamo allora interessati ad incontrare il sapere del reale, come sostiene Lacan. Un sapere, per sua natura, sempre inedito. La capacità incredibile di rendere possibile questo sapere inedito del reale è tipico dello psicotico senza che lo psicotico, ovviamente, sappia di avere questa presa nel reale del sapere, sostiene sempre Lacan. Sarà per questo che vale la pena essere catturati dall’enunciazione di chi è collocato come lo scarto della società? Vale la pena, forse, di considerare, questo scarto, come pietra angolare da cui ripartire per riprendere o ricollocare un qualche discorso nel sociale.
L’arte di cui parleremo sarà infatti di clinica nel sociale. Nel sociale, nel senso di fuori dalla cittadella della salute, fuori dall’ospedale. È proprio lì, nel sociale, dove è paradossalmente più facile, a volte, incontrare discorsi utili alla cura per chi, in ospedale, sarebbe considerato malato grave sul piano psichico e intellettivo.
Una sfida ai saperi specialistici? In un certo senso sì. Si tratta tuttavia di una sfida insita nel reale e incontrabile in modo evidente grazie alla modalità di esistenza degli psicotici, della psicosi. Prendiamo in considerazione la psicosi e le modalità di essere dello psicotico per la struttura “creativa” del suo discorso, là dove è possibile che questo discorso accada. Là, dove gli spazi sono già saturi dai saperi specialistici, il discorso dello psicotico tende a non accadere.
Non è una questione di simpatie o antipatie tra specialisti, non è una questione di invidia o di gelosia per chi ne sa di più. Al contrario è una questione strutturale al soggetto del sapere (all’homo scientificus) e rinvia, caso mai, all’atteggiamento del ricercatore che si rende conto di trovare quel che non cerca e di cercare ciò che non trova. Una consapevolezza che arriva, se arriva, sempre post-hoc, in effetti.
La paradossalità di tali situazioni è dovuta alla condizione esistenziale o meglio strutturale del soggetto che si muove, nel senso che nasce non da una combinazione biologica soltanto ma da una combinazione simbolica quale è la condizione di nascere come esseri di linguaggio, come esseri parlanti.
COME INQUADRARE LA QUESTIONE?
Due brevi considerazioni per inquadrare la questione che si vuole affrontare.
L’attività clinica che oggi viene chiamata riabilitazione ha una sua storia e propri contesti geografici di sviluppo anche in Italia.
In Italia, in particolare, ci sono state delle riforme, negli anni ‘70, a partire dalla legge n. 180/78, relativa alla malattia mentale, grazie alla quale si sono chiusi i manicomi e dalla meno citata legge n. 517 del 4 agosto 1977, relativa all’handicap, grazie alla quale si sono chiuse le scuole speciali.
Queste leggi hanno reso obbligatori i “diritti civili e di cittadinanza” anche per queste categorie di coraggiosi soggetti e, per altro, socialmente sfortunati.
Potremmo dire subito che si tratta di soggetti coraggiosi perché non evitano di inventare, nella società, loro propri discorsi anche se vengono sostanzialmente mortificati nel loro dire, nell’enunciazione del loro essere, del loro testimoniare, del loro …. scrivere! Vedremo, in realtà che a livello di scrittura, al di là cioè del visibile e, in pratica, nel simbolico, la presa nel sociale assume altre valenze.
LA PAURA DELL’ALTRO
Molti anni fa (13 anni fa per l’esattezza) in un piccolo paesino del varesotto è successo che gli amministratori pubblici, venuto a sapere che si sarebbe dovuto insediare un Centro Diurno per malati mentali, hanno convocato d’urgenza il Primario di psichiatria ed il Direttore sociale di allora ad una riunione di chiarificazione che voleva essere, in realtà, un tentativo per bloccare la decisione regionale.
La società civile, rappresentata dai politici, consiglieri comunali, era terrorizzata dall’idea di avere a che fare con i matti: aveva paura del …… MOSTRO……
Ma anche il “Mostro ha paura”, come dice molto precisamente ed acutamente la canzone di Lucio Dalla.
Le cose oggi non sono minimamente cambiate su questo punto anche se il Centro Diurno dopo 10 anni è stato finalmente realizzato.
Una paura connessa sostanzialmente al non sapere chi è l’altro, al non sapere che cosa farà l’altro, al non sapere ….. tout court!
Quel che è certo è che il mostro ha paura …… figuriamoci i bambini o comunque tutte le persone che percepiscono la loro stessa emarginazione. Quanta paura, in questi soggetti!
“Bevo, mi ubriaco, perchè non riesco a lasciarmi andare, ho paura dell’Altro, di non essere gradita e di rimanere sola ed allora bere mi dà una carica, un’euforia che mi illude che tutto sia possibile ….”. Sono frasi che si sentono non solo nelle sedute degli psicoanlisti. É un segnale di disagio come tanti altri segnali, sempre più evidenti nelle istituzioni e nella società. Forse non si tratta solo di disagio. Il potere autodistruttivo della paura dell’incontro con l’estraneo è un dramma sociale, oggi , nell’era della globalizzazione. La questione, a livello sociale, è già un effetto del dramma personale ed individuale del soggetto.
Uno scontro immaginario tra soggetti che temono l’altro perché dell’altro non sanno, o meglio perché hanno il timore di non essere accettati dall’altro, nel legame sociale di cui hanno una necessità estrema.
È curioso osservare quale immenso potere ed energia distruttivi possa scatenare la paura di non sapere, assolutamente coincidente con la convinzione di sapere. È stupefacente constatare quale immenso potere distruttivo ed energia oppositiva riesca a scatenare la traduzione istantanea “non so nulla dell’altro =so bene che l’altro mi uccide”. Sapere che tutto ciò è irrazionale non aiuta necessariamente ad essere più razionali. L’immaginario è così potente da orientare le nostre decisioni anche contro ogni evidenza logica. È proprio quanto ci insegnano l’amore e l’odio.
Meno male che la follia è strutturale al soggetto, come dimostra Lacan, nelle sue ricerche cliniche e come sanno benissimo gli psichiatri disincantati e consapevoli del loro lavoro. L’altro folle sarebbe lì a testimoniare ciò che di strutturalmente ci appartiene. Sarebbe come illudersi che uccidendo o eliminando il folle che sta fuori di noi sia eliminato anche il folle che ci appartiene strutturalmente.
LA RIABILITAZIONE O COME ECONOMIZZARE IN SANITÀ CURANDO LA CRONICITÀ
È una delle ragioni dell’interesse, in sanità, per l’attività così detta riabilitativa: ridurre i costi! Benedetto Saraceno (1995) elenca tre ragioni per spiegare l’interesse della psichiatria per la riabilitazione, spiegando che queste ragioni non sono interne “al discorso della psichiatria, bensì alla messa in questione del medesimo”.
Sono ragioni che vanno ricercate nelle dinamiche sociali, culturali ed economiche[1].
Massiccia diminuzione di pazienti “manicomiali” che, negli ultimi 20 anni, ha interessato tutti I paesi europei e del nordamerica. Il primo motivo di interesse per la riabilitazione nasce dalla necessità di “intrattenimento extramanicopamiale”. Potremmo anche dire la stessa cosa rispetto alle scuole speciali. Chiuse queste scuola c’è la necessità di un’attività extra scuole speciali e offrire alle famiglie un tempo quotidiano di sollievo……..
La stessa domanda del paziente ospedalizzato. Cresce cioè la consapevolezza che anche i pazaienti hanno i loro “diritti di cittadinanza”. La critica nei confronti delle istituzioni chiuse va avanti di pari passo con la scoperta dell’importanza del rispetto per tutti i cittadini compresi quelli con malattie croniche sia psichiche sia fisiche.
Evidenze epidemiogiche date dagli studi di follow-up sulle schizofrenie. Tali studi evidenziano il peso del contesto sullo sviluppo delle psicosi e la rilevanza del funzionamento sociale come elemento predittore di esito. Alcuni effetti di cronicizzazione si sono rivelati paradossi non intrinseci alla malattia ma appartenenti ad un insieme di variabili sulle quali è possibile intervenire. Si tratta di variabili legate a contesti microsociali (famiglia e comunità) possibili da maneggiare diversamente da quanto avviene nelle rigide strategie manicomiali a modello biomedico(statiche e povere). Queste ricerche mostrano che l’intervento (sulle psicosi) ha senso se condotto a “tutto campo”, influenzando quindi la complessa costellazione dei fattori di rischio e quelli di protezione.
Altre questioni si pongono.
La cronicità dei pazienti (Handicap, Malati mentali) o meglio il loro ripresentarsi ciclicamente ai servizi;
l’instaurarsi di una loro dipedenza passiva potrebbe far pensare ad una sorta di refrattarietà del disturbo mentale (e dell’hp.) ai trattamenti? Si chiedono gli autori del capitolo.
Per tutte queste ragioni, investire nella riabilitazione fa parte di una concezione nuova, da wellfare leggero, per così dire, che permetterebbe il ricorso a strutture ed a strumenti meno costosi e meno impegnativi sul piano clinico. Gli autori del volume citato individuano i modelli di proposte riabilitative che articolano in quattro grandi categorie:
Social skills training –
Psicoeducativi –
Di Spivak –
Di Ciompi –
La concezione di fondo che accomuna questi modelli è l’educazione: diverse soglie di ingrersso ai programmi educativi (come nelle scuole) e netta separazione della nozione di cura da quella di riabilitazione, come se la riabilitazione debba intervenire, temporalmente, dopo la cura, quando non sostituirsi all’impossibile della cura (come nel caso della cronicità).
In questi sistemi centrati su tecniche educazionali si incontra presto una questione non superabile: la constatazione di essere comunque emarginati o comunque ai margini del sistema produttivo, del sistema sociale, tout court. Il risultato a cui si arriva è che le cose che si fanno a questo punto si fanno perchè si devono fare, il fine si estingue nel mezzo.
Un fare che si pensava finalizzato si svela afinalistico.
Saraceno, cioè in questo modo, cerca di evidenziare la difformità che c’è tra modelli/tecniche da una parte e la loro applicazione dall’altra dove il vero fattore di confondimento per il modello o la tecnica sarebbe proprio il soggetto. Il soggetto, come variabile non controllabile, rovinerebbe i bei modelli che si costruiscono per lui.
Il programma scientifico di riabilitazione incontra una divergenza rispetto al progetto di vita del soggetto. – In psichiatria, dice Saraceno, l’influenza dei fattori di confondimento generati dalla realtà “consuma” le tecniche ed i modelli, e “crea” tecniche e modelli operativi che sono di fatto degli oggetti ignoti e non descritti….
La questione non va ricercata nella competenza/incompetenza degli operatori. É molto più complessa. I fattori di confondimento sono molto più complessi dei modelli, sono molto più influenti e dirompenti di qualunque tecnica. – (Saraceno, 1995, p. 54).
A questo punto si prospettano due soluzioni:
Cancellare il soggetto, ridurlo ad abilità frammentate, particolari, che dovrebbero essere riunificate su di un piano cognitivo – va da sé che la variabile della soggettività continuerà comunque a premere, con il suo coraggioso discorso, per il semplice fatto che esiste;
Ripensare, o meglio rendersi disponibili ad incontrare proprio la soggettività per poter commisurare il programma riabilitativo in modo che si possa parlare di riabilitazione di quel soggetto lì particolare, anche fuori o al di là del programma che fa riferimento all’ideale, al Super-io….
Il diritto di cittadinanza riscoperto e riaffermato con le riforme sanitarie anche quelle recenti è realizzabile, in fondo, solo laddove si facciano i conti proprio con il soggetto psicotico, con il soggetto in quanto diverso.
Ma a ben guardare, indipendentemente dalla paura che si può ingenerare quando si parla di psicotico, basti pensarsi uno per uno per cogliere come ciascuno di noi si consideri un’eccezione rispetto agli altri. È proprio questo carattere di eccezione che ci rende unici, effettivamente, nella nostra singolarità. Sarebbe, allora, proprio quanto specifico aspetto che occorre accettare, sul piano generale, per ogni politica di trattamento del soggetto, sia esso un trattamento diagnostico, di cura o di riabilitazione. Come fare per essere preparati a “governare” l’eccezione? Con questa domanda siamo già molto lontani da qualsiasi piano di amministrazione educativa del soggetto.
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[1] Ambrogio Cozzi, Sui percorsi della riabilitazione e la cura, in La cura della malattia mentale II°. Il trattamento (a cura di Luigi Colombo, Domenico Cosenza, Ambrogio Cozzi, Angelo Villa) ed. Mondadori 2001, pag. 250 e segg.